Rosario Livatino, che oggi sarà proclamato Beato dalla Chiesa nel corso di una cerimonia che si svolgerà nella Cattedrale di Agrigento, la mafia la conosceva bene. Il magistrato ucciso il 21 settembre del 1990 da quattro killer della Stidda, la incontrava ogni mattina scendendo di casa.
A pochi passi dalla sua abitazione in viale Regina Margherita, nel centro di Canicattì, abitava infatti anche il boss del paese, Calogero Di Caro, arrestato nuovamente il 2 febbraio scorso insieme ad Antonio Gallea, condannato all’ergastolo proprio come mandante dell’omicidio del magistrato. E Livatino, già impegnato in delicate inchiesta antimafia nonostante la sua giovane età, chi fosse quel signore che lo salutava in modo deferente lo sapeva bene.
All’inizio degli anni ’80 era entrato a far parte come sostituto della Procura di Agrigento. Un pool di magistrati affiatati, guidato dal procuratore Elio Spallitta, del quale facevano parte anche Salvatore Cardinale e Roberto Saieva, che aveva cominciato a indagare sulle cosche agrigentine. Come le famiglie Caruana e Cuntrera, partite con la valigia di cartone da Siculiana, un piccolo paese della provincia, per il Venezuela e il Canada e diventate in pochi anni i più importanti broker del narcotraffico internazionale. Indagini che portarono Livatino a collaborare, insieme al Gip Fabio Salamone, con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Un magistrato schivo e riservato, che ogni mattina prima di recarsi al Palazzo di Giustizia di Agrigento, si raccoglieva in preghiera nella vicina chiesa di San Giuseppe. Una fede testimoniata anche da un altro “segreto”. Gli investigatori impiegarono mesi per decodificare l’acronimo “S.T.D.”, riportato su appunti, documenti e quaderni del magistrato e inizialmente scambiato per un codice segreto. Alla fine si scoprì che si trattava di un costante affidamento che Livatino faceva a Dio: le tre lettere stavano per “Sub Tutela Dei” (sotto la protezione del Signore”). Tanto che i mafiosi lo definivano in modo sprezzante il “santocchio”. Anche per questo motivo le autorità vaticane hanno riconosciuto che il martirio di Livatino avvenne “in odio delle fede”.
Una fede coniugata con un grande rigore professionale e una difesa del ruolo e dell’indipendenza del magistrato. Parlando nel 1984 ad un convegno sul ruolo del giudice, disse: “Sarebbe sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario”. Proprio in quell’anno chi scrive, allora giovane cronista, ebbe modo di conoscere il magistrato per motivi di lavoro. In redazione arrivò la notizia di un uomo fatto saltare in aria con una carica di esplosivo in un casolare nelle campagne dell’agrigentino. Livatino, che era il sostituto di turno, stava interrogando nella caserma dei carabinieri la vedova della vittima che si scoprì poi essere un boss mafioso di rango, Lillo Lauria, ucciso su ordine dei corleonesi di Totò Riina. I giornalisti pressavano gli investigatori per avere notizie sull’attentato. Il magistrato rispose che poteva incontrare un solo rappresentante della stampa. Anche in quell’occasione Livatino non smentì la sua fama di magistrato riservato e poco incline ai riflettori: “Posso solo dire che la mia presenza in questa caserma testimonia che è stato commesso un reato, mi dispiace non posso fornire altre notizie”. Un atteggiamento distante anni luce dal rapporto spesso distorto tra magistrati e giornalisti che si andava sviluppando già in quegli anni. Per non parlare di vicende recenti come il sistema Palamara o la bufera sui verbali dell’avvocato Amara che ha investito il Csm. Chissà cosa ne avrebbe pensato quel “giudice ragazzino” che da domani sarà Beato. (FONTE ANSA.IT).