Si parla di una vera e propria “sindrome da lavoro precario”: pensieri che diventano ossessivi sul lavoro che non c’è, o che non ci sarà quando scadrà il contratto; la preoccupazione costante sul lavoro da svolgere al meglio per evitare il licenziamento. I sintomi più comuni sono: insonnia, mal di stomaco, depressione, ansia, disistima per se stessi. Negli ultimi mesi sono state realizzate diverse ricerche che hanno evidenziato correlazioni tra crisi economica e depressione, tra disoccupazione e suicidi. I giovani hanno difficoltà a formulare e poi realizzare progetti personali di autonomizzazione e costruzione di una vita indipendente, ad esempio sotto il profilo abitativo. Sempre di più temono per il futuro a causa della instabilità delle condizioni socio-economiche, che ostacola anche il progetto, a medio-lungo termine, di costruzione di un nuovo nucleo familiare.
I meno giovani invece, a rischio di licenziamento, o in cassa integrazione, o perdenti l’occupazione, sono messi in crisi profondamente a causa dell’improvvisa, inaspettata perdita di stabilità, faticosamente raggiunta. Il fenomeno recessivo costituisce un fattore stressante prolungato che può agire su aspetti di vulnerabilità personale, su caratteristiche personali preesistenti e contribuire al passaggio da una condizione ordinaria a una patologica. Ciò è dovuto al fatto che le fonti di stress permangono nel tempo e si associano spesso a una limitata possibilità di disattivare l’evento stressante, per cui, dopo una prima fase di allarme e una seconda di resistenza, le possibilità di reazione dell’individuo tendono ad esaurirsi.
Perdere il lavoro mette gravemente a rischio la propria identità.
Il venire meno di una occupazione vuol dire non avere più un ruolo sociale, la capacità di sostentare se stessi e magari la propria famiglia. Daniela Ovadia in un articolo dal titolo “Chi perde il lavoro perde se stesso?” pubblicato sulla rivista Mente&Cervello del febbraio 2010 dice che dal punto di vista della psicologia sociale, l’individuo tende a costruire una rappresentazione di sé basata sui ruoli che sente propri e, in base a questi, sviluppa la sicurezza che gli consente la corretta integrazione sociale. Sulla base della selezione di tali ruoli si sviluppano il prestigio, la sicurezza in se stessi e altre dimensioni importanti per l’integrazione sociale; dalla sensazione di essere in grado di adempiere in modo soddisfacente ai ruoli sentiti come più propri si sviluppa l’autostima.
Essere o non essere in possesso di un’occupazione produce quindi conseguenze a due livelli:
- a livello dell’integrazione sociale, connesso con il prestigio, la sicurezza in se stessi, ecc.
- a livello dell’immagine di sé e dell’identità, connesso con l’autostima;
L’intensità di questi effetti sarà proporzionale al significato maggiore o minore che il ruolo lavorativo ha per i diversi individui. Coloro che sono maggiormente motivati nella ricerca di un’occupazione, sono anche più danneggiati da un fallimento in questa ricerca in misura direttamente proporzionale al prolungarsi del periodo di non occupazione. E’ molto complesso non solo affrontare le conseguenze pratiche della perdita dell’impiego, ma anche la possibilità di reinventarsi un modo per rientrare nel mondo del lavoro, di cogliere opportunità nuove, se si presentano. Dolorosa e poco indagata è, per Perrone, “la solitudine di chi si trova improvvisamente confinato in casa, privato della propria identità ed escluso dalla rete di relazioni nella quale ha investito buona parte della propria affettività oltre che del proprio impegno lavorativo”. Un elemento da tenere in considerazione è l’attribuzione della responsabilità: in un momento di crisi economica globale potrebbe essere più facile affrontare la perdita di lavoro se l’attribuzione è esterna e non interna. Se si perde il lavoro perché le cause di riduzione del personale sono legate alla recessione e non dipendono dal singolo (sono quindi esterne), gli effetti psicologici negativi possono essere attenuati rispetto a quando incolpiamo noi stessi dell’evento.
Così come è importante analizzare le reazioni delle persone vicine, la rete di affetti, il sostegno disponibile e la capacità di chiedere aiuto e di non soccombere al vissuto di vergogna. Portare il denaro a casa è un elemento fondante dell’identità maschile, che anni di educazione alla parità dei ruoli hanno scalfito solo in parte: va bene condividere le responsabilità lavorative e persino quelle casalinghe, ma invertire i ruoli è ancora molto conflittuale. In Estonia, paese che, con la Finlandia e l’Islanda, ha visto crescere negli ultimi anni la disoccupazione maschile a fronte di un maggior impiego di donne, è cresciuta parimenti la violenza sessuale e domestica. Un fenomeno che i Governi locali guardano con preoccupazione e per scongiurare il quale hanno messo in piedi costose campagne di sensibilizzazione.
La disoccupazione è un dramma per tutti, non solo dal punto di vista economico ma anche psicologico. Il lavoro è correlato allo status sociale di una persona e costituisce la base sulla quale immaginare il proprio futuro. Se non è una scelta volontaria – afferma Ovadia (ibidem) – stare a casa, per un uomo come per una donna, è perdere una parte di sé”.
La perdita del proprio ruolo di elemento attivo della società ha ricadute importanti e a volte superiori a quelle della mancanza di denaro, come dimostrano le più recenti ricerche in materia. La perdita dell’autostima concomitante alla perdita del lavoro, inficia anche le capacità dell’individuo di cercare una via d’uscita, specie in frangenti economicamente difficili come quelli che stiamo vivendo. Da qui può generarsi una sorta di “immobilismo” del ruolo lavorativo, l’incapacità di immaginarsi impegnati in qualcosa di totalmente diverso e nuovo che rappresenta uno degli ostacoli che gli psicologi del lavoro tentano di rimuovere quando una persona fatica troppo a reinserirsi. Ci possono essere tre tipi di atteggiamento di fronte alla perdita di occupazione:
La perdita del lavoro assume la connotazione di una perdita complessiva di un sistema di appartenenza, della identità sociale e professionale e della capacità di incidere attivamente sul reale.(Dinamica della Disperazione)
La perdita del lavoro viene assunta quale tradimento, aggressione, riduzione ad uno stato di impotenza cui rispondere con un atteggiamento che consenta un riscatto personale. (Dinamica del riscatto)
La crisi attivata dalla perdita del lavoro offre spazi evolutivi e possibilità di cambiamento e di mobilitazione delle risorse. (Dinamica dello sviluppo)
Da questi tre diverse rappresentazioni dell’evento “perdita di lavoro” possono scaturire reazioni comportamentali diversificate.
In fasi di grave crisi, come quella attuale, diventa fondamentale per l’individuo possedere la capacità di reagire positivamente ai cambiamenti, mutando le difficoltà in opportunità. Si parla sempre di più di resilienza, termine mutuato dalla scienza dei materiali dove connota la capacità di resistere a forze in grado di provocarne la rottura. La psicologia della salute la studia per comprendere quali fattori portino alcune persone a crollare di fronte a certi eventi ed altri a reagire facendo fronte autonomamente a condizioni di forte svantaggio. Per la psicologa Anna Oliverio Ferraris, la resilienza “è per la psiche ciò che il sistema immunitario è per il corpo, però, siccome psiche e corpo lavorano insieme e non c’è psiche separata dal corpo, i due sistemi possono potenziarsi oppure deprimersi a vicenda”. Oliverio Ferraris mette in evidenza una serie di fattori o attitudini che compongono la resilienza: biologici, psicologici (tra cui l’importanza delle relazioni che si formano nell’infanzia e che consentono di strutturarsi come persona capace di reagire di fronte alle avversità), sociologici (l’influenza del gruppo, della cultura, dell’etica, della spiritualità). “La rete di relazioni – afferma Perrone in un articolo del 2010 – è la palestra nella quale impariamo ad avere fiducia in noi e negli altri e a non sentirci soli di fronte agli imprevisti che la vita ci presenta ogni giorno. Rompere questa rete significa ridurre la capacità di rispondere in modo positivo a una crisi. Questo spiega perché le riduzioni di personale nelle aziende, che seguono inesorabilmente una crisi economica lasciando ampi e significativi buchi nella rete delle relazioni tra le persone, gettino anche coloro che dovrebbero essere motivati e contenti per aver salvato il proprio posto in una ‘sindrome del sopravvissuto’ capace di deprimere sia la produttività sia la persona”. Per essere resilienti, “abbiamo dunque bisogno del sostegno che può venire anche dalle comunità di lavoro”.
Il momento di crisi che attualmente viviamo, il senso lacerante di impotenza che sempre di più sperimentiamo in relazione all’instabilità lavorativa lasciano emergere vissuti di tristezza e di disistima, di rabbia e di disperazione. Sempre e dentro ognuno di noi sono riposte delle energie, che se momentaneamente assopite dobbiamo in tutti i modi risvegliare. Sperimentare nuovi ruoli, adattarsi anche transitoriamente a nuovi compiti, rafforzare l’autostima, trarre il meglio da noi stessi e da quel poco che ci viene offerto. Alimentare l’iniziativa personale, sconfiggere i vissuti di vergogna, di fallibilità è un compito arduo che ci dobbiamo imporre, nella consapevolezza che alimentare la motivazione a contrastare il periodo difficile è l’unico modo vincente per uscire a testa alta. E tutto ciò lo dobbiamo primariamente a noi stessi e poi ai nostri cari.
Dott.ssa Giusi Giannone